Per centrare il bersaglio non basta vederci bene.
Occorre che occhio e mano siano ben coordinati.
Lo psicologo che non ti aspetti è innanzitutto un ESPERTO DELLA COMPLESSITA’.
Continua a leggere “Psicologi: meno narcisismo, più panetteria!”
Per centrare il bersaglio non basta vederci bene.
Occorre che occhio e mano siano ben coordinati.
Lo psicologo che non ti aspetti è innanzitutto un ESPERTO DELLA COMPLESSITA’.
Continua a leggere “Psicologi: meno narcisismo, più panetteria!”
Fra pochi giorni è il compleanno della mia partita iva.
Fino al momento della sua apertura, mi ero occupata per lo più di formazione, per cui la ritenuta d’acconto era stato un cantuccio caldo-caldo per evitare di mettermi addosso una “responsabilità fiscale”.
Furono queste le parole che utilizzò un commercialista a cui chiesi un consiglio a suo tempo, quando ero giovane e mi barcamenavo tra tutoraggi e docenze varie.
Si dice excusatio non petita accusatio manifesta. Ma una premessa è d’obbligo in questo caso. Lo spazio di questo blog è il mio, così come le mie idee. Spesso le mie idee, quando si tratta di politica professionale, coincidono con quelle di un’associazione che si chiama AltraPsicologia, ma se scelgo di scrivere queste righe qui e non sul sito dell’associazione, è perché quanto segue NON ha nulla di politico e TUTTO di personale. E’ stata un’estate inaspettatamente calda dal punto di vista del dibattito, soprattutto intorno a ciò che accade in ENPAP. Molta informazione, controinformazione, pseudoinformazione è circolata sul web e sui social. Ad ognuno, in scienza e coscienza, la scelta di appiccicare questa o quell’etichetta a questo o a quell’articolo, perché quando si parla di ENPAP si parla dei nostri soldi e delle nostre pensioni: le sigle stanno a zero. Qualsiasi approfondimento e confronto tra iscritti e con i consiglieri è praticamente d’obbligo. E’ all’interno di questo dibattito che mi imbatto in un articolo del consigliere di indirizzo generale per il Sud Pingitore, dal titolo L’ENPAP NON PENSA AL SUD . Terminata la lettura avevo un certo prurito ai polpastrelli… le righe scritte di seguito sono quanto uscito di getto, a mano, sulla classica carta e penna. Continua a leggere “L’ENPAP e gli psicologi terroni”
[In questo nuovo articolo tutti gli scenari POSsibili per gli psicologi!]
La vicenda POS mi pare prototipica di una gestione della politica professionale incapace di ascoltare (i suoi iscritti) e di farsi ascoltare (dalle istituzioni).
Il countdown è partito.
Qui ciascuno può trovare l’avviso di convocazione per la propria regione.
Potete leggere lo “Speciale Elezioni” per la regione Campania qui CLIKKA
Le elezioni sono ormai alle porte e una domanda sorge spontanea:
L’Ordine a che serve? Come è fatto? Quali i suoi effettivi doveri?
Continua a leggere “A cosa serve l’Ordine? Considerazioni minime per aspirazioni massime!”
Siamo tanti e con un drammatico tasso di disoccupazione.
Gli psicologi sono tra le categorie più sfruttate e meno assunte.
Se faccio mente locale non c’è collega che stia a casa senza far nulla: il problema non è fare.
Il problema è fare e venire pagati.
Non dico il 28 di ogni mese, ma dopo 6 mesi ce la possiamo fare?
Resta comunque il fatto che siamo tanti e guadagniamo poco, pochissimo, praticamente mai in maniera costante.
Il che significa, tra le altre cose, che la maggior parte di noi sta ossessivamente a controllare gli annunci di lavoro e compulsivamente a inviare curriculum.
Questo rende la categoria molto vulnerabile a offerte di lavoro che vanno dall’impreciso, allo stravagante, al vero e proprio truffaldino.
Ad esempio all’improvviso, per ogni città, compaiono annunci di ricerca di psicologi per grandi progetti e/o concorsi su tutto il territorio nazionale.
Approfondisci e scopri di dover prima pagare una fantomatica quota d’iscrizione, poi seguire un corso di formazione e infine fai il promoter per l’ente che cerca agganci con i medici, farmacie, ecc ecc…
In pratica hai pagato per fare quello che già fai di tuo quando ti proponi sul territorio.
Alcuni sono persino audaci e ti telefonano e, con il più banale dei piedi nella porta, ti chiedono
Vuole diventare nostro consulente?
E poi scopri che hanno un’idea davvero particolare del lavoro di “consulente” (virgolette doverose): per accettare questa magica e certamente imperdibile offerta di lavoro che si sono scomodati a farti telefonicamente, ti devi iscrivere a un portale sul quale comparirà il tuo nome (come i migliaia di elenchi di psicologi e professionisti che già esistono, e alcuni pure gratuiti) al modico costo di 60 euro per i primi sei mesi.
Questa è la proposta di consulenza… non ridete, che ci sono persone che accettano.
Perché saranno proposte pure sciocche e banali ma su grandi numeri porta comunque un introito a costo relativamente zero.
La condivisione serve a proteggersi anche da questo. Qualche collega giovane (cioè più giovane…) mi scrive, mi chiede cosa penso di questa o di quell’offerta di lavoro (quando ne trovano). E’ sconvolgente il numero di volte in cui sono costretta a dire
E’ una caz*ata, ti stanno chiedendo soldi
oppure
E’ una caz*ata, leggi bene che cercano volontari
Possiamo fare tante riflessioni sul capitalismo, sulla società, sul mercato in generale, sul mercato del lavoro, sulla bambocciosità e sull’essere choosy di noi giovani-di-30-anni-che-mia-madre-aveva-già-2-figli-alla-mia-età-e-lavorava-da-10.
Ma qualsiasi essa sia, lo step successivo mi pare sia uno solo: Informarsi, rifiutare e magari anche informare gli altri.
Siamo tanti, troppi, è vero, ma è possibile che questo elemento debba costituire *solo* un punto di debolezza?
Siamo tanti. E contiamo pochissimo.
Spesso ci fermiamo al “tanti”, alla costatazione numerica e se ci impantaniamo qui è vero: non possiamo fare più nulla, a meno di organizzare un suicidio di massa o organizzare qualche attentato che faccia fuori almeno la metà di noi.
Se non possiamo cambiare i numeri, almeno quelli attuali, non sarà forse il caso di cominciare a pensare se sia possibile cambiare quel “contiamo pochissimo”?
Negli ultimi mesi si sono accumulate una serie di iniziative sulle quali si sono fatte politicamente una serie di preoccupanti dormite.
Le tre forse più eclatanti che mi vengono in mente.
La campagna sull’eiaculazione precoce che descrive il disturbo come unicamente medico e che ha tra i finanziatori del progetto una casa farmaceutica (potete approfondire leggendo questo articolo dell’Osservatorio Psicologia nei Media).
La campagna sulle cure palliative e la terapia del dolore. Si citano tutti, ma lo psicologo non c’è.
L’apertura dei Centri di Salute Sessuale della Coppia (in questo articolo si parla del Lazio, ma se la memoria non mi inganna, apriranno anche in Campania): un’iniziativa encomiabile, urologi, ginecologi e ohibò! Lo psicologo, ancora, non c’è.
Possibile che una categoria di 90mila professionisti non abbia la forza di farsi prendere in considerazione?
Doveva averla già, e se non ce l’ha ancora, DOBBIAMO prenderla.
Sì o no.
Le vie di mezzo, i compromessi, tutto ciò che è stato fatto finora è stato miope. Terribilmente miope, più simile a una grande abboffata cannibalica, assolutamente particolaristica e personalistica, che a una strategia di politica e cultura professionale capace di resistere nel tempo.
Il mio tempo, la mia generazione, è quasi del tutto andata, bruciata.
Lo sono quasi tutti i tardogiovani della mia età e forse lo sono soprattutto gli psicologi.
So bene che tutto ciò che potrò mai avere nella mia carriera professionale è assolutamente lontano da quello che merito per competenza, impegno, dedizione, sacrificio.
Vale per me e vale per molti altri della mia generazione, che non sapranno mai cos’è un concorso, non avranno, se non in minima parte, la possibilità di avere uno stipendio fisso, non potranno di certo godere della stabilità e delle prospettive che appena la generazione prima della mia ha potuto avere.
Non possiamo cambiare niente di tutto questo.
Possiamo solo decidere cosa fare col tempo che ci viene concesso.
Ci sono le cattive giornate. Eccome se ci sono.
Quelle in cui si torna a casa alle dieci di sera alla fine di 24 ore dove si è fatto sala d’attesa dal dirigente che ti ha spicciato in tre secondi, dove si è pranzato con i colleghi dell’associazione, in una mano la fetta di margherita, nell’altra l’ordine del giorno, dove il caffè lo si prende al volo prima di andare a parlare con quel tizio per vedere se c’è modo di concretizzare quell’idea geniale che ti è venuta in mente nottetempo.
Quelle giornate in cui a sera ti rendi conto che hai meno soldi di quanti ne avessi la mattina.
Che saresti stato più ricco se fossi restato a casa a far nulla.
Ci sono eccome. Quelle sere che ti metti a letto e il dubbio ti assale.
E se avessi fatto in un altro modo?
Se quella volta che il dirigente asl mi hanno detto “dai, facci un po’ di formazione gratis” [lo raccontavo qui], avessi detto sì, ora si ricorderebbe di me e magari potrebbe darmi un’occasione?
Se mi fossi messa anche io a fare gli sportelli gratuiti per qualche anno nelle scuole invece di pretendere sempre e solo di fare progetti pagati, forse ora avrei un giro più ampio di pazienti privati?
Se avessi continuato il volontariato, invece di andarmene, e pure un poco sdegnata, forse avrebbero trovato il modo di farmi fare qualche progetto?
Se avessi fatto scelte politiche diverse, ora starei pure io in qualche stanza a pigiar bottoni?
Questa mia convinzione che mollare un pezzo della propria identità, corromperla, comprometta non solo il lavoro, ma anche il futuro e il benessere, non sarà un po’ troppo rigida?
Forse se avessi ceduto un pezzettino qua e là potrei passare più tempo su una poltrona non su uno scomodo sedile di automobile.
Magari avrei qualche rimborso spese, non dico il posto fisso, e non dovrei preoccuparmi di inventarmene sempre una nuova, e sempre più con costi vicino allo zero, per promuovere l’attività privata o le attività dell’associazione.
Ci sono eccome giornate così. Poi ti addormenti.
E la mattina dopo magari trovi in chat il messaggio di un compagno che non sta messo meglio di te che ha avuto un’idea e ti vuole coinvolgere. Ti chiama un ex allievo che vuole fare l’esame con te, non perché sei quella più buona, ma perché “le tue lezioni erano grandi, ho voglia di vederti e salutarti!”. Vai a pranzo a casa di un collega, che tu piaci alle mamme di tutti i colleghi, che adorano cucinare per te e non ti fanno sentire mai un ospite.
E’ per questo enorme potere energizzante dei sistemi che credo profondamente nella condivisione tra colleghi. Il libero professionista non può permettersi la solitudine, l’egoismo.
Non può permettersi la cazzimma.
Perché la brutta giornata è dietro l’angolo, perché il momento in cui la voglia di arrendersi s’aggrappa allo stomaco sta lì in agguato proprio quando ti senti più stanco.
Perché la malapolitica, il clientelismo, il malaffare, ci possono togliere molte cose, anche le molte che meriteremmo.
Ma le relazioni, quelle proprio no.
Alla fine ti sei scoperto psicologo delle Terre dell’Ovest, hai sentito che anche per te non è questo il giorno.
E hai deciso che tentare di diventare uno psicologo ne vale la pena.
Sin da subito mi è sembrato profondamente ingiusto non dare seguito al mio post precedente (Tutta la vita davanti: ti conviene iscriverti a psicologia?) e non dire qualcosa a chi, nonostante tutto, più o meno consapevole di cosa l’aspetta, ha deciso di intraprendere questo percorso.
Scrivo consapevole del fatto che i percorsi di vita sono talmente personali e le motivazioni così soggettive che non mi sento di dare suggerimenti come se io fossi chissà chi.
Partirò come sempre dalla mia esperienza personale, per lasciare al massimo qualche spunto di riflessione…Queste sono le idee che hanno fatto e fanno star bene me; le idee che mi danno la spinta a continuare ancora questo percorso di vita.
Chi si iscrive adesso a psicologia non vivrà, ahinoi, una condizione politica, sociale e occupazionale molto diversa da quella in cui sono io, insieme ai miei colleghi, adesso.
Per questa ragione penso che il primo spunto di riflessione sia:
quali sono le tue “fantasie lavorative”? Come ti immagini la tua professione di psicologo?
La fantasia che al momento mi sembra avere più possibilità di realizzazione è quella della LIBERA PROFESSIONE.
Che è “libera” perché tutti gli aspetti organizzativi dipenderanno dalla tua volontà (personale ed economica), è “professione” perché se vuoi davvero tentare di farla, devi investire sulla competenza.
La libera professione è una prospettiva angosciante perché dà, soprattutto all’inizio, un vissuto di forte instabilità; ma è pure il campo in cui i raccomandati hanno la vita più breve. Il medico di base del quartiere può fare al figlio psicologo tutti gli invii che vuole, ma se i pazienti non ottengono risultati, non c’è babbo che tenga. Questo può sollevare un po’ l’umore…
La libera professione, inoltre, mette nudi e crudi non solo di fronte a cosa SAI, ma anche a cosa sai FARE e pure a cosa ti sai INVENTARE.
Credo che SAPERE, FARE e INVENTARE sono tre parole che se ben bilanciate già durante gli studi universitari possono predisporre al meglio nei confronti del lavoro.
Sono anche le tre parole che, secondo me, devono guidare le scelta circa la formazione post-laurea.
Purtroppo la formazione post-universitaria e la specializzazione in una o più aree (psicodiagnosi? psicologia giuridica? psicoterapia? selezione del personale? ecc ecc) è un passaggio troppo spesso inevitabile.
Credo che se si decide di frequentare un corso di formazione o specializzazione post laurea, ci sono tre domande che bisogna porsi per orientare la propria scelta.
Alla fine del corso:
– Cosa saprò?
– Cosa saprò fare?
– Come potrò utilizzare questa competenza e in quali ambiti?
Conoscere e approfondire la teoria dei gruppi è alla portata di qualsiasi laureato.
Saper condurre un gruppo con dei bambini non è invece così scontato.
Avere l’intuizione di proporre dei gruppi esperienziali per bambini che hanno subito un lutto, in piena “Terra dei Fuochi”, è un’idea che non era venuta in mente a nessuno e che ci siamo inventati con l’Associazione Legami (Il Cerchio della vita) .
Più di tutto, però, ti invito a riflettere sulla COMPETITIVITA’ e la COLLABORAZIONE.
Se la tua attitudine è quella di pensare che se hai una buona idea è bene tenerla tutta per te, non credo avrai vita molto lunga.
Credo nella collaborazione perché una buona idea condivisa, ragionata, pensata, discussa con altri può diventare un’idea grandiosa ed è soprattutto destinata a resistere nel tempo.
Praticamente ogni giorno colleghi mi scrivono per chiedermi come avviare un blog, come disegnare una locandina, come scrivere un progetto, cosa chiedere al commercialista, come scrivere una fattura, come avviare un’associazione…
Non so di certo fare tutte queste cose, ma credo di non aver mai lasciato qualcuno senza un’indicazione, foss’anche il nome di un altro collega o di un amico che poteva dargli una mano.
Eppure è tutta concorrenza, si dirà…
E io vi dirò che se lo faccio, non è né per bontà né per altruismo. [Forse un po’ per narcisismo sì :P]
La verità è che io credo che più colleghi lavorano e si promuovono bene e meglio è per la psicologia. E meglio è per la psicologia e meglio è per me!
Forse sono ottimista, ma credo fortemente in questo circolo virtuoso! Questo blog, alla fine, è nato esattamente per questa ragione.
In fondo anche Frodo, da solo, senza l’hobbit grasso Sam, non sarebbe mai arrivato a gettare l’Anello del potere nelle fiamme del Monte Fato.
E la razza degli uomini sarebbe caduta al Fosso di Helm (Elm in napoletano 😛 ) o al Nero Cancello se ciascuno non avesse messo da parte i propri individualismi.
E la vera conclusione di questo post è proprio questa.
Sono una nerd! 😀
Quell’estate avevo deciso di darmi un’ultima chance.
Era il lontano 2005.
Luglio bollente.
Meno due esami alla sudatissima laurea triennale.
Ero ormai sopravvissuta a quella sorta di esperimento sociologico che aveva ammassato tremila matricole in un’ateneo già investito da tutte le incognite della transizione al Nuovo Ordinamento (il famoso 3+2…).
Una marea informe di persone, un piano di studi che mi cambiò sotto il naso almeno tre volte, 35 esami, quasi tutti a risposta multipla…la mia volontà e la mia passione si erano prosciugate nelle lunghe attese sotto la pioggia, in segreteria. Che era una finestra su un cortile.
Volevo mollare. Credetti proprio di aver sbagliato tutto, di aver visto forse qualche telefilm di troppo.
Poi quel luglio bollente.
Fu una questione di principio: non potevo laurearmi in psicologia senza aver visto almeno “un pazzo”.
Tutti andarono in vacanza, io mi ficcai in una clinica privata.
Senza camice.
Ecco come andarono le cose: avevo una t-shirt nera con una grande striscia bianca verticale. Mi lasciarono così, in una stanza con venti “pazzi”, che urlavano, ciondolavano, biascicavano che non comprendevo mezza parola.
Restai immobile. Spaventatissima, iniziai a contare tutti i possibili oggetti appuntiti che potevano essermi tirati contro, conficcati nella mia orbita oculare destra, per la precisione.
Una moka fu eletta causa della mia prossima e certissima morte.
Naturalmente non accadde nulla di tutto ciò.
E’ il 2013 e io vi sto scrivendo dalla scrivania del mio studio mentre aspetto una paziente.
Cosa mi ha portato fin qui?
Forse furono davvero loro, quei venti mattacchioni. Li rivedo e li risento ancora mentre cantano “romagna mia” (non chiedetemi perché) o mentre provano a raccontarmi o disegnarmi il loro mondo.
Amando loro ho cominciato ad amare la mia professione.
Perché al contrario di quello che si crede non ha a che fare (solo) con le tristezze, i guai, le angosce.
Questo lavoro produce continuamente speranza, è fatto per aprire possibilità.
E’ un lavoro che riguarda la vita e che dà vita.
Per questo lo amo.