Quando si svolge la libera professione si ha un unico posto fisso: l’automobile.
Perché solo in automobile può sopravvivere lo psicologo libero professionista: l’autovettura è il simbolo della diversificazione delle attività.
Io, ad esempio, in alcune giornate particolarmente diversificate, posso svolgere tre attività in tre città diverse; il tutto senza dono dell’ubiquità…ma sarebbe il caso, per il libero professionista, iniziare a profumare di fiori e attrezzarsi anche per quella.
Dotazioni da santità.
Una delle attività in questione consiste in una manciata di ore di docenza in psicologia per persone di mezza età che, ritrovatesi all’improvviso senza lavoro, sono state catapultate, loro malgrado, in un corso di formazione.
Finora la mia esperienza di docente era sempre stata rivolta a colleghi e aveva sempre riguardato materie come la psicodiagnosi e la psicologia clinica. Persone con cui non avevo bisogno di dilungarmi troppo se usavo termini come “inconscio”, “controllo degli impulsi”, “esame di realtà” .
Questi nuovi allievi così speciali, invece, mi hanno costretta a pormi una questione fondamentale: come posso parlare di concetti complessi come le emozioni, il transfert, l’apprendimento, la comunicazione, il problem solving, il feedback senza apparire una pazza che parla in ostrogoto di concetti insabbiati nell’iperuranio?
E soprattutto: come posso farlo senza condannarli a una noia eterna?
Come posso condividere efficacemente con loro la mia profondissima convinzione che la psicologia non è proprio niente di astratto, ma anzi, essa è fondante della quotidianità della vita di ciascuno?
A volte ascolto colleghi lamentarsi del fatto che se le persone non si rivolgono allo psicologo, ma preferiscono il neurologo, il prete o il santone di turno, è per colpa dell’ignoranza e dei pregiudizi che circondano la nostra professione.
Supponiamo pure che sia vera questa ipotesi.
Il passo successivo qual è?
Di certo non attendere che le persone all’improvviso “studino di più” e “aprano le loro menti”.
Ancora una volta, la palla è in mano a noi psicologi professionisti: quando promuoviamo la nostra attività, la nostra professione, su quale gradino calibriamo la nostra comunicazione? Sul nostro o su quello del possibile, futuro paziente-cliente?
Quando ho di fronte i miei allievi di mezza età che hanno conseguito al massimo la terza media, sono loro che devono capire me o io che devo farmi capire da loro?
Io ho scelto la seconda via, impegnandomi però a restare sempre su due binari: mai banalizzare, mai illudere. Mai dire che se ci vogliamo bene saremo più sani e più belli, mai dire che la psicologia ci guarirà tutti e ci regalerà la felicità eterna.
Così la mia riflessione si sposta necessariamente sul modo in cui raccontiamo la nostra professione, sulle strategie che mettiamo in atto per far capire all’altro quanto bene potrebbe farsi se non aspettasse tre anni dal suo primo attacco di panico prima di decidere di cercare un intervento.
Di nuovo, allora, una volgare faccenda di marketing, di nuovo qualcosa che ci fa sentire venditori sporchi e peccatori. Di nuovo odore di zolfo e calore da fiamme dell’inferno.
In verità vi dico quello in cui credo io.
Io credo che finché conduciamo il nostro viaggio da liberi professionisti dirigendo la rotta sui binari della non banalizzazione e della non illusione, qualsiasi strategia di marketing sarà ben lontana dalla dannazione eterna ed anzi, dirò di più. Essa sarà tra le più elevate manifestazioni di impegno sociale che uno psicologo possa mettere in atto.
Io credo che si commetta peccato mortale quando si uccide una buona intuizione con una spiegazione noiosa e inefficace.
Io credo che l’anatema sia meritato quando riusciamo a coinvolgere in un seminario un buon numero di persone incuriosite, salvo poi spegnerne l’entusiasmo alla terza slide su sfondo psichedelico, con font illeggibile e dimensione del carattere lillipuzziana.
Io credo pure che gli studi privati siano meritatamente vuoti quando tutto quello che si è fatto per riempirli è stato distribuire biglietti da visita.
Alla nostra professione e per la nostra professione non servono né santi martiri né guru eretici. Serviamo noi, e quello che abbiamo imparato in tanti anni di studio. Analisi dei contesti, strategie di comunicazione, empatia, creatività ed efficacia. Competenze e qualità che utilizziamo sempre con i nostri pazienti, con risultati talvolta splendidi e inaspettati.
Cosa aspettiamo allora a utilizzare queste attitudini e questi strumenti anche al servizio della promozione professionale?