In principio era il libero professionista e il suo studio.
Per evitare di restare fermi al principio, è bene attrezzarsi per escogitare qualche strategia utile a intercettare quanti più pazienti.
In questo arrovellarsi di pensieri strategici, è molto probabile che fra le prime idee a saltare in mente ci sia quella di offrire il primo colloquio gratuito.
La domanda allora sorge spontanea: questo colloquio gratuito serve a far venire più persone nel nostro studio?
La mia riflessione non vuole vertere sugli aspetti motivazionali del paziente: ancora una volta utilizzerò il crudelissimo punto di vista del marketing.
Anch’io all’inizio della mia attività ho proposto il primo colloquio gratuitamente.
Ma da subito è cominciato ad accadere un fatto curioso.
Sebbene l’offerta fosse ben evidente nell’homepage del mio sito, TUTTI alla fine della prima seduta mi hanno chiesto «Dottoressa, quanto le devo?» . Tutti avevano beatamente ignorato l’informazione. Avevano digitato psicologa caserta su google, avevano trovato il mio sito fra i primi, avevano segnato il numero di telefono e avevano solennemente ignorato tutto il resto.
A questo punto, allora, occorre ragionare più opportunamente sulla ratio che regge una simile offerta.
Prima ipotesi: una persona può essere attratta da un colloquio gratuito perché ha problemi economici oltre che psicologici.
Possibile.
Ma a questo punto come possiamo immaginarci che dopo il colloquio gratuito possa intraprendere un percorso?
Un’altra ipotesi, molto in voga, è che il colloquio gratuito serva a bypassare il pregiudizio nei confronti degli psicologi.
E’ l’ipotesi che, personalmente, ho cavalcato per un po’, un pregiudizio che spesso mi è parso così radicato da colpire me, ma anche gli psichiatri: un rifiuto totale per il mondo “psi”; tuttora il 99% dei miei pazienti in contemporaneo trattamento farmacologico sono seguiti da un neurologo non da uno psichiatra, e sono arrivati da me successivamente e per casi più o meno fortuiti.
Nulla contro i neurologi, naturalmente, ma anche su questo aspetto alla fine ho dovuto riflettere più approfonditamente: il pregiudizio, se e quando presente, non riguarda noi in quanto professionisti (almeno non del tutto), riguarda la nostra funzione. Se ho gli attacchi di panico e la mia convinzione è che mi occorra lo Xanax, possono offrirmi pure dieci colloqui psicologici gratuiti, la verità è che preferirò spendere 100 euro da chi può darmi lo Xanax.
In fondo è così incredibile o addirittura deprecabile?
Penso che anche a noi psicologi sia capitato di dover andare a fare la spesa. Perché lo facciamo? Perché molto probabilmente abbiamo aperto la credenza e abbiamo scoperto di aver finito i biscotti. Allora scendiamo da casa, entriamo nel supermercato e se incrociamo quei banchetti che offrono prodotti gratuitamente, difficilmente ci fermeremo. A noi servono i biscotti. Ci servono, risolvono il nostro problema della fame, e per questo siamo ben disposti a pagare.
Perché i nostri eventuali clienti dovrebbero ragionare diversamente da noi? La gratuità, allora, soprattutto se selvaggia e indiscriminata, poco farà per risolvere il vero punto nodale di uno psicologo libero professionista: far sapere al suo possibile cliente che è proprio lui il professionista che può aiutarlo a risolvere il suo problema, e pure nel modo migliore possibile.
Ancora una volta, quindi, la risorsa da utilizzare è la nostra creatività, l’utilizzo efficace di quanto appreso nelle nostre lunghe formazioni e dalle nostre esperienze.
Molto spesso sento dire che il mercato per il libero professionista è saturo, che le persone dallo psicologo non ci vanno.
Eppure sono stata in reparti di psicologia clinica ospedaliera, in centri di salute mentale, in servizi pubblici che offrivano miracolosamente psicoterapia: crisi o non crisi i pazienti ci hanno sempre sommerso.
La domanda c’è, il punto è intercettarla.
Un po’ per caso, un po’ per scelta, mi sono trovata sempre a lavorare con pazienti gravi, famiglie incancrenite da gravi conflitti, tossicodipendenti, alcolisti, ma anche persone con attacchi di panico che hanno aspettato 5-6 anni prima di rivolgersi a qualcuno. E ogni volta, di fronte al racconto dei disastri del loro passato, ho pensato: se non hanno fatto niente prima è dipeso solo dalla loro scarsa motivazione? E’ davvero dipeso tutto dall’attaccamento ai vantaggi secondari della malattia?
Tutto ciò ha sicuramente un peso nella storia dei nostri pazienti, ma siamo sicuri che in questa storia, noi, in quanto categoria professionale, non siamo coinvolti? Che ogni volta che siamo chiusi nei nostri studi ad aspettare dietro le scrivanie, limitandoci allo sforzo di distribuire biglietti da visita ai medici di base, non stiamo contribuendo al mantenimento delle condizioni di disagio?
Quando sentiamo l’odiosa affermazione «Io nella psicologia non ci credo», andiamo oltre la smorfia di disapprovazione. Se questa frase ci è ripetuta un po’ troppo spesso, prendiamoci la responsabilità di aver fatto poco per far pensare il contrario.
Penso sia questa l’unica strada che un libero professionista deve intraprendere, se vuole sopravvivere sul mercato.