Siamo tanti e con un drammatico tasso di disoccupazione.
Gli psicologi sono tra le categorie più sfruttate e meno assunte.
Se faccio mente locale non c’è collega che stia a casa senza far nulla: il problema non è fare.
Il problema è fare e venire pagati.
Non dico il 28 di ogni mese, ma dopo 6 mesi ce la possiamo fare?
Resta comunque il fatto che siamo tanti e guadagniamo poco, pochissimo, praticamente mai in maniera costante.
Il che significa, tra le altre cose, che la maggior parte di noi sta ossessivamente a controllare gli annunci di lavoro e compulsivamente a inviare curriculum.
Questo rende la categoria molto vulnerabile a offerte di lavoro che vanno dall’impreciso, allo stravagante, al vero e proprio truffaldino.
Ad esempio all’improvviso, per ogni città, compaiono annunci di ricerca di psicologi per grandi progetti e/o concorsi su tutto il territorio nazionale.
Approfondisci e scopri di dover prima pagare una fantomatica quota d’iscrizione, poi seguire un corso di formazione e infine fai il promoter per l’ente che cerca agganci con i medici, farmacie, ecc ecc…
In pratica hai pagato per fare quello che già fai di tuo quando ti proponi sul territorio.
Alcuni sono persino audaci e ti telefonano e, con il più banale dei piedi nella porta, ti chiedono
Vuole diventare nostro consulente?
E poi scopri che hanno un’idea davvero particolare del lavoro di “consulente” (virgolette doverose): per accettare questa magica e certamente imperdibile offerta di lavoro che si sono scomodati a farti telefonicamente, ti devi iscrivere a un portale sul quale comparirà il tuo nome (come i migliaia di elenchi di psicologi e professionisti che già esistono, e alcuni pure gratuiti) al modico costo di 60 euro per i primi sei mesi.
Questa è la proposta di consulenza… non ridete, che ci sono persone che accettano.
Perché saranno proposte pure sciocche e banali ma su grandi numeri porta comunque un introito a costo relativamente zero.
La condivisione serve a proteggersi anche da questo. Qualche collega giovane (cioè più giovane…) mi scrive, mi chiede cosa penso di questa o di quell’offerta di lavoro (quando ne trovano). E’ sconvolgente il numero di volte in cui sono costretta a dire
E’ una caz*ata, ti stanno chiedendo soldi
oppure
E’ una caz*ata, leggi bene che cercano volontari
Possiamo fare tante riflessioni sul capitalismo, sulla società, sul mercato in generale, sul mercato del lavoro, sulla bambocciosità e sull’essere choosy di noi giovani-di-30-anni-che-mia-madre-aveva-già-2-figli-alla-mia-età-e-lavorava-da-10.
Ma qualsiasi essa sia, lo step successivo mi pare sia uno solo: Informarsi, rifiutare e magari anche informare gli altri.
Siamo tanti, troppi, è vero, ma è possibile che questo elemento debba costituire *solo* un punto di debolezza?
Siamo tanti. E contiamo pochissimo.
Spesso ci fermiamo al “tanti”, alla costatazione numerica e se ci impantaniamo qui è vero: non possiamo fare più nulla, a meno di organizzare un suicidio di massa o organizzare qualche attentato che faccia fuori almeno la metà di noi.
Se non possiamo cambiare i numeri, almeno quelli attuali, non sarà forse il caso di cominciare a pensare se sia possibile cambiare quel “contiamo pochissimo”?
Negli ultimi mesi si sono accumulate una serie di iniziative sulle quali si sono fatte politicamente una serie di preoccupanti dormite.
Le tre forse più eclatanti che mi vengono in mente.

La campagna sull’eiaculazione precoce che descrive il disturbo come unicamente medico e che ha tra i finanziatori del progetto una casa farmaceutica (potete approfondire leggendo questo articolo dell’Osservatorio Psicologia nei Media).
La campagna sulle cure palliative e la terapia del dolore. Si citano tutti, ma lo psicologo non c’è.
L’apertura dei Centri di Salute Sessuale della Coppia (in questo articolo si parla del Lazio, ma se la memoria non mi inganna, apriranno anche in Campania): un’iniziativa encomiabile, urologi, ginecologi e ohibò! Lo psicologo, ancora, non c’è.
Possibile che una categoria di 90mila professionisti non abbia la forza di farsi prendere in considerazione?
Doveva averla già, e se non ce l’ha ancora, DOBBIAMO prenderla.
Sì o no.
Le vie di mezzo, i compromessi, tutto ciò che è stato fatto finora è stato miope. Terribilmente miope, più simile a una grande abboffata cannibalica, assolutamente particolaristica e personalistica, che a una strategia di politica e cultura professionale capace di resistere nel tempo.
Il mio tempo, la mia generazione, è quasi del tutto andata, bruciata.
Lo sono quasi tutti i tardogiovani della mia età e forse lo sono soprattutto gli psicologi.
So bene che tutto ciò che potrò mai avere nella mia carriera professionale è assolutamente lontano da quello che merito per competenza, impegno, dedizione, sacrificio.
Vale per me e vale per molti altri della mia generazione, che non sapranno mai cos’è un concorso, non avranno, se non in minima parte, la possibilità di avere uno stipendio fisso, non potranno di certo godere della stabilità e delle prospettive che appena la generazione prima della mia ha potuto avere.
Non possiamo cambiare niente di tutto questo.
Possiamo solo decidere cosa fare col tempo che ci viene concesso.
Tutto tristemente vero…però dobbiamo comunque perseverare e darci da fare!!! La prima reazione leggendo ciò, sarebbe quella di mollare gli studi XD
Caro Gianluca,
credo che il pensiero di lasciare gli studi o mollare la professione sia estremamente sano in questo particolare momento storico.
Naturalmente non intendo dire con questo che mollare sia la soluzione, ma che questo pensiero è sano nella misura in cui ci fa confrontare con l’idea che o si cambia o si molla, di certo non si può andare avanti così.
E il cambiamento non lo si può attendere stando supini o lasciandosi andare ad analisi masturbatorio-rivendicative su tutto quello che si sarebbe dovuto fare (e intendiamoci: si sarebbe dovuto eccome!!) e non si è fatto.
Qui forse interviene il mio animo utopistico, ma penso che il cambiamento può partire da ogni singolo, nella misura che più sente aderente al proprio essere psicologo. Per qualcuno può essere semplicemente rifiutarsi di lavorare gratis, di fare volontariati in attesa di riscuotere (ma quando mai?) il credito nel futuro indefinito, di aprire un blog di confronto coi colleghi, di scendere in politica.
Ognuno il cambiamento se lo misura su di sé e sulle proprie attitudini.
E se non si ha la forza, la voglia, di farsene carico, è meglio mollare, fare altro, invece di andare a ingolfare un sistema che sta implodendo
Purtroppo tutto quello che hai scritto è vero…Io faccio parte della categoria dei “tardogiovani” di cui parli e che passano le giornate tra l’attesa di qualche chiamata di pazienti, e l’invio di curriculum a destra e a manca, arrivando anche al punto di pensare di lasciar perdere tutto e accontentarsi di qualsiasi lavoro, perchè purtroppo con tre bambine a casa, il bisogno di guadagnare qualcosa diventa la priorità. Però poi, non so nemmeno io come, la passione, l’amore per la nostra professione, la voglia di farla conoscere alla gente, prevalgono e continuo ad accumulare idee e progetti, la maggior parte dei quali non potranno essere realizzati… Tuttavia, mi piace pensare che prima o poi le cose cambieranno, forse proprio grazie a noi, e ad un modo nuovo e più aperto di vivere e vedere la professione.
comunque sarebbe il 27 del mese, non il 28…
e questo la dice lunga… ^^”
Ciao Ada, complimenti per questo articolo che rispecchia pienamente quello che è anche il mio pensiero, come suppongo, quello di tanti altri colleghi “tardogiovani” come noi.
Personalmente da qualche anno svolgo la libera professione cercando di crearmi una sorta di piccola utenza di nicchia, tra sacrifici, passione, dedizione, momenti di sconforto, tanta creatività e, a dirla tutta, non poche difficoltà economiche..
Ma continuo a ripetermi che il fatto di essere nati in un periodo storico e professionale tutt’altro che florido e stimolante, non può diventare un motivo valido per lasciarsi andare e mollare tutto, anzi, citando il vecchio Einstein, la mia filosofia è: “Nel mezzo della difficoltà giace l’opportunità”!
Forse dovremmo iniziare ad aprirci di più tra di noi, parlare, condividere, trasmetterci a vicenda tecniche di coping e resilienza per cominciare ad alzare la testa, credere di più nella nostra categoria professionale e trasformare insieme gli ostacoli in opportunità..
Continuerò a seguire il tuo blog!!
Un caro saluto,
Michela
La mia tesi di specializzazione si intitola “Speranza e cronicità nella terapia dell’alcolismo”.
Credo che non sia un caso che abbia iniziato questo blog nello stesso periodo in cui la scrivevo 🙂
(e sì, c’era anche la tua citazione di Einstein! 😀 )
Ciao Ada sono un tuo collega , io credo che il voler parlare di questo problema non fa altro che alimentare la nostra crisi, se un ipotetico paziente percepisce che noi siamo in crisi allora non si rivolgera’ mai a noi , io credo che il tuo sfogo è comprensibile ma cosi facendo sminuisci ancora di piu’ la categoria, ti consiglio se vuoi utilizzare lo strumento di internet di parlare di psicologia e non di crisi dello psicologo che siamo gia’ in alto mare , il mio è solo un appunto poi sei libera di continuare a parlare di giovani psicologi disperati in cerca di lavoro , Saluti.
Il tuo è un punto di vista interessante, ma promuovere l’esame di realtà continua a sembrare un’operazione utile tanto alla professione (vecchi e giovani) quanto a chi vuole rivolgersi al professionista.
Saluti
Non è cosi , il principio di realta’ noi psicologi lo conosciamo e anche bene , non abbiamo bisogno di qualcuno che ci ricordi che il lavoro non c’è, anzi si fa peggio perchè le persone su facebook o sui social network in generale leggendo questi blog o questi post non fanno altro che pensare a noi come ad una categoria di giovani senza speranze e che ci possono sfruttare, in quanto il lavoro per noi non c’è, e nello stesso tempo ci sfruttano sapendo che tanto accettiamo di tutto, io direi invece di cominciare a non svalutare la categoria anzi “proponendo” piuttosto che piangersi addosso, quindi se vuoi un consiglio utilizza il blog per discutere di altro magari ti fai anche un po’ di pubblicita’ , cerca di pensare bene non è che magari ti senti sconfitta?…rimboccihamoci le mani e vedrai che qualcosa prima o poi ci sara’ anche per noi Saluti.
Penso faresti meglio a leggere tutti gli altri post del blog, perché se c’è un posto dove non si respira aria di sconfitta professionale, penso sia proprio questo.
Spero che la mia provocazione possa esserti di aiuto, devo dirti che in questo blog nella maggior parte dei casi c’è sempre qualche aspetto negativo come ad esempio “il primo colloquio gratuito servira’ a quacosa?” oppure “pessimismo e fastidio : la brutta giornata del libero professionista” o ancora “la compagnia degli psicologi” , dai su , cominciamo a pensare in positivo e vedrai che qualcosa di buono ne uscira’ per tutti . Saluti.
Per carità, ovvio che dobbiamo pensare in positivo, altrimenti a quest’ora avremmo già mollato tutto…Però non è sempre facile, quando ti rendi conto che potresti fare tanto e bene, ma non te ne viene data la possibilità. E credo sia meglio parlare anche di questo aspetto, piuttosto che fare finta che sia tutto a posto. La negazione degli aspetti critici non credo faccia bene a nessuno.
A me “piace” molto questo esame di realtà. Se da un lato dobbiamo rimboccarci le maniche dall’altro dobbiamo partire dalla situazione attuale. Dire “non c’è lavoro, diamoci da fare” è banale, serve una riflessione più seria sul perchè la nostra figura professionale non esiste “professionalmente” nella mente delle persone e quindi delle istituzioni. In fondo siamo un po’ come i preti, i consiglieri, i migliori amici…non ci viene riconosciuta professionalità per lo più….ma come mai?!? Davvero quello che studiamo e mettiamo in pratica non ha valore?!? perchè se è così scelgo un altro mestiere e faccio la psicologa nel tempo libero…altrimenti organizzarsi e avere ripercussioni a piani decisionali, governativi e politici potrebbe avere senso.
Le direttrici credo debbano essere due.
Una riguarda un approccio alla professione che sia “più economico”. Quando avviamo la libera professione (e allo stato attuale è questa la via principale attraverso cui fare lo psicologo) dobbiamo farlo ragionando, oltre (ma voglio sperare sia scontato…) che in termini di competenza, anche in termini economici e di marketing.
Quando faccio questi discorsi o cerco di insegnare ai colleghi come maneggiare questi argomenti, inizialmente ho sempre una reazione simile a una specie di ribrezzo, che si fa il denaro sul dolore della gente. Per quella che è la mia esperienza del disagio psichico, una buona operazione di marketing, che significa, sostanzialmente, FARSI TROVARE DA CHI STA IN DIFFICOLTA’, è non solo un’operazione economica, ma un’operazione civile. Quando vedo pazienti con gli attacchi di panico da 10 anni, certo, ragiono sulle resistenze, certo, ragiono sull’origine e i vantaggi secondari del disturbo…ma siamo sicuri che noi come professionisti non siamo un po’ colpevoli, quando stiamo chiusi negli studi ad aspettare, del fatto che le persone ci mettono 10 anni prima di arrivare dallo psicologo?
La seconda strada passa necessariamente per la politica. Innanzitutto da un rinnovamento della politica professionale, che nell’ultimo decennio si è occupato (semplifico, per carità) dell’ambito sanitario e della cura, lasciando scoperto il fianco (più o meno volutamente, visto che poi i counselor ce li formiamo noi psicologi, e in abbondanza…) ai temi della prevenzione, del lavoro, della promozione del benessere, della riabilitazione.
Certo, il processo è lungo, e la mia generazione sicuramente non ne godrà, ma, personalmente, non per questo sento di non dovermi prendermi delle responsabilità e degli impegni.